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Quando Dante incontra sé stesso: il canto di Ulisse

Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno, Dante sta per raggiungere l’apice del suo viaggio tra i peccatori di ogni tempo. Insieme a Virgilio, il “magister”, ha già percorso le impervie vie di sette bolge, incontrando personaggi mitologici, autori antichi, amanti disperati, banchieri fiorentini, papi e uomini-serpente.

Ecco che l’ottavo cerchio si spalanca di fronte alla sua vista, con un’infinita distesa di fuochi vivaci e ardenti. Qui sono puniti i consiglieri fraudolenti, coloro che hanno usato l’intelligenza per trarre gli altri in inganno, e ora sono intrappolati in una fiamma viva quanto il loro passato ingegno.

Alla vista dei numerosi peccatori, il poeta è incuriosito da una sola fiamma che si divide in due lingue: appartiene a Ulisse e Diomede. Entrambi, personaggi dell’epica omerica, non sono solo responsabili dell’inganno del cavallo di Troia, per cui sono maggiormente noti, ma hanno anche ingannato Achille. Lo hanno così costretto a partire per la guerra contro i Dardani, e hanno trafugato il Palladio, la statua di Atena conservata sulla rocca di Troia.

L’attenzione del poeta, però, si sposta su Ulisse, a cui egli desidera chiedere con l’intercessione di Virgilio quale sia stata la causa della sua morte.

La voce dell’eroe si leva così nel silenzio sofferente dell’Inferno, rischiarando le epoche trascorse dalla sua scomparsa. Le fiamme sono la sua lingua, e la voce è tinta di consapevolezza, ma mai pentimento e rassegnazione.

Ulisse racconta di come, di ritorno da Troia, sia stato trattenuto da Circe sulle coste del Lazio, nella stessa zona che poi sarebbe stata chiamata Gaeta da Enea.

Le vicende assumono una profonda variazione, rispetto a come Omero le aveva raccontate. Ulisse, infatti, non narra del suo ritorno alla lontana Itaca, né dell’incontro con la moglie Penelope, il figlio Telemaco, e il padre Laerte, i suoi più cari affetti. Egli non farà mai più ritorno in patria, perché neppure l’amore, avrebbe potuto vincere dentro di lui “l’ardore di diventare del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore”.

L’eroe racconta di come si mise in mare attraverso tutto il Mediterraneo, con una sola nave e i più fedeli tra i compagni rimasti, navigando verso la zona tra Marocco e Spagna, le Colonne d’Ercole. Queste rappresentavano il confine del mondo umano e conosciuto, il limite di tutto ciò che era concreto.

I compagni, prosegue Ulisse, sono vecchi e stanchi, riluttanti ad attraversare il confine, ma egli li persuade con esortazioni tonanti, grazie alle sue doti retoriche. “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza.”. Ecco che le parole maneggiate dall’ingegno diventano mezzo fondamentale di persuasione, che spingono i compagni ad accettare, quasi con un’ovazione. Così, la nave sembra spiccare il volo sulle acque, lasciandosi alle spalle le consapevolezze, verso l’insidiosa meta.

Dopo cinque mesi di navigazione vicino alle colonne d’Ercole, il prezzo da pagare per aver sfidato l’ignoto si mostra nella sua amarezza: l’eroe e i compagni sono di fronte alla montagna del Purgatorio. Il nero abisso dell’oltretomba si spalanca sotto di loro, e il mare si richiude solo dopo averli ingoiati. Ulisse ora tace.

La figura dell’Ulisse delineata da Dante ha una grande complessità e presenta una moltitudine di contraddizioni. Da un lato, Ulisse è un peccatore di “hybris”, quella superbia che rende giustificata la sua eterna punizione. Egli, infatti, non ha solo, per natura o desiderio, tratto in inganno chiunque potesse, ma ha anche osato cadere vittima della “follia” (v. 125). Non è la prima volta che Dante utilizza tale termine.

Lo fa anche nel II canto dell’Inferno con il medesimo significato: folle è colui che trasgredisce il volere divino per tracotanza. L’eroe è mosso dall’ardente desiderio di conoscenza, di espansione dei propri orizzonti, ma non considera la gravità della propria impresa: sta superando un limite inviolabile.

D’altro canto, la percezione di Dante nei confronti di Ulisse non è solo negativa. Egli, infatti, ammira profondamente la sete di sapere dell’eroe, che lo spinge ad essere colmo di coraggio nei confronti dell’ignoto.

Dante stesso si era perduto nella “selva oscura” del peccato, anche per il suo desiderio di conoscenza. Nell’orazione di Ulisse per convincere i compagni sembra lo stesso Dante a parlare, sostenendo che l’uomo razionale sia reso umano dal desiderio inestinguibile di conoscere. Ora Ulisse e Dante sono la stessa persona, potrebbero essere lo stesso peccatore, se non fosse per la profonda fede religiosa del poeta.

La figura di Ulisse secondo la visione dantesca ha segnato una svolta per l’identità del personaggio nell’intera letteratura. La sete di infinito degna di Ulisse è rappresentata anche da Giovanni Pascoli nel suo poema in versi “L’ultimo viaggio”. Qui si delinea un’immaginaria avventura dell’eroe durante gli ultimi anni della sua vita. Nell’opera letteraria di James Joyce, “Ulisse” è rappresentato un metaforico viaggio dell’eroe rivisitato in chiave moderna.

Infine, la stessa brama di conoscenza assume un più alto e diverso significato nelle parole di Primo Levi, nella sua opera: “Se questo è un uomo”.

Levi scrive della speranza attinta dal nebuloso ricordo del canto dantesco durante la prigionia. L’Inferno del lager è ben diverso da quello di Dante, ma soprattutto il valore della brama di conoscenza, che ha condotto Ulisse alla morte, ha salvato la vita all’autore.

Ulisse insegna all’uomo moderno come superare i confini imposti dalla superstizione, anche a costo della vita. Infatti, egli è stato il primo a percorrere quel tratto di mare vicino alla stessa rotta che, nel XV secolo, avrebbe reso Colombo un eroe, dando inizio all’età moderna.

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