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Da Dante a Fosco Maraini: un viaggio tra lingua e neologismi in poesia

[…] se l’italiano fosse stato parlato sin dagli inizi da tutto il popolo, dai mercanti, dagli artigiani, dai giudici e dai militari, dai contadini e dal re, esso si sarebbe trasformato come si sono trasformati francese e inglese, a tal segno che oggi un francese o un inglese, se leggono autori loro dell’epoca di Dante, ne capiscono pochissimo, come se si trattasse di un’altra lingua. […] Dante è [invece] linguisticamente attuale.


Questo è quanto scrive Umberto Eco, semiologo, filosofo, scrittore, accademico, traduttore e bibliofilo, nella prefazione al libro Il mio Dante, edito da Einaudi, di Roberto Benigni, attore, comico, regista e sceneggiatore italiano. Ciò che mi ha colpito di più è sicuramente la riflessione icastica attorno alla lingua dantesca come qualcosa che noi oggi comprendiamo senza grossi problemi. Inutile dire che spesso non pensiamo a quel dettaglio sulla vita di Dante Alighieri che vede il poeta occupare il periodo compreso tra il 1265 e il 1321. Sono passati settecento anni dalla sua scomparsa. Settecento. E se agli inizi del Trecento il vocabolario italiano presentava circa il sessanta per cento delle parole odierne, alla fine del medesimo secolo ne presentava il novanta per cento[1]. Gli anni successivi sono quindi serviti per ampliare un linguaggio che risultava già essere quasi completo. Perché la lingua italiana non si è trasformata radicalmente? Quali sono i pro e i contro dell’attualità dell’italiano trecentesco?


Saper maneggiare abilmente la lingua permette la composizione in versi di opere come la Divina Commedia di Dante, o come Mia sorella, la vita di Pasternak, o come I fiori del Male di Baudelaire, e potrei proseguire ancora a lungo. Ogni artista si focalizza su una caratteristica ben precisa della parola. Sul suono che produce, sul significato allusivo e/o simbolico, sul significato concreto, sulle emozioni che suscita nel lettore il quale rimane inevitabilmente intrappolato nelle maglie di un’arte capace di condizionarlo per secondi, ore, giorni e addirittura per tutta la sua esistenza. Mario Caramitti, professore associato presso l’università La Sapienza di Roma, ricercatore in slavistica (studio della civiltà slava dal punto di vista linguistico, filologico e letterario) laureatosi all'università di Roma Tor Vergata, traduttore di numerose opere russe e autore di svariati studi sulla letteratura russa contemporanea, scrive che nel primo Novecento la poesia russa è la sua realizzazione fisica, il suo suono, sempre e esclusivamente performato. La grana, la pasta, la fibra sono già tutto, sono anche ritmo, semantica, invenzione. Questa descrizione è potente, ed è potente perché, come il poeta, anche lo studioso di una certa cultura e di certi versi è portato a raggiungere con le parole un livello di perfezione tale per cui, se anche il significato risulta essere oscurato, precise figure retoriche, di significato e di posizione, rendono un messaggio suscettibile delle più disparate e profonde interpretazioni.


La poesia del Trecento in Italia è, differentemente dalla poesia novecentesca russa, interessata per lo più al significato. Essa è emblema del sentimento collettivo, che ricerca una cultura letteraria più complessa rispetto ai secoli precedenti, influenzata da un’irrequietezza sociale e politica sintomo della frantumazione delle istituzioni comunali e dell’introduzione di signorie e principati. In questo panorama, la Divina Commedia si propone in veste di opera di sapienza, che spazia da un linguaggio colloquiale e, per certi versi, rasente lo scurrile nell’Inferno, fino a porsi il problema dell’impossibilità di esprimere il trascendente nel Paradiso, perché alla ricerca di una perfezione plastica tale per cui si è resa indispensabile l’ideazione di svariati neologismi. Con la sua opera in volgare fiorentino, Dante, padre della lingua italiana, ha come obiettivo il risveglio della società dal torpore medievale. Ciò nonostante, la maestria del sommo poeta gli permette di attingere anche ai latinismi, superstiti di un passato da cui il popolo tenta di prendere le distanze. Nei secoli successivi, la critica attacca le decisioni linguistiche di Dante, a partire da Pietro Bembo (1470-1547) che ricerca una poesia armoniosa ed equilibrata, vaga e leggiadra, in netto contrasto con la complessità stilistica ed espressiva dei versi danteschi. Gli attacchi all’opera continuano anche nel XVII secolo, quando i critici, sulla falsa riga del conservatorismo promosso dall’Accademia della Crusca e abbacinati dalla poesia di Torquato Tasso, disprezzano la sostanza storica e letteraria dei classici trecenteschi. Il valore della composizione viene riportato in auge solo nel Settecento, a scapito delle polemiche sollevate dagli illuministi.


Se nella terza e ultima cantica di Dante i neologismi sono l’espediente essenziale per esprimere l’indicibile, nel contemporaneo Fosco Maraini (1912-2004), orientalista, fotografo ed etnologo, i numerosissimi neologismi presenti nella raccolta Le Fànfole si inseriscono in un quadro metasemantico, tramite la cui poesia si propongono dei suoni e si attende che il […] patrimonio d’esperienze interiori, magari il […] subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze[2]. Ciò prevede inoltre la prevaricazione del carattere connotativo su quello denotativo, tanto che le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti[3]. Il lettore, non potendo quindi godere di un significato univoco delle parole, deve partecipare attivamente, tuffarsi a capofitto nella poesia, e donarle un senso. Nelle composizioni di Maraini, i neologismi sono tali solo per via dell’intervento sul lessico, e non sulla fonologia, né sulla morfosintassi.


In conclusione, ogni poeta è artefice di un proprio modo di assaporare il linguaggio e far emergere peculiari sfaccettature che permettono di apprezzare una diversa parte del mondo, dell’inconscio e della cultura di un popolo. L’occasione sfuggente del lettore sta nel saper cogliere le sfumature, nel saper interpretare le parole e nel saper fare i conti con il suo Io più introverso, restio ad abbondonarsi a quel certo grado di oblio e di incoscienza necessario per non essere schiavi della convenzionalità.

[1] Prefazione di Umberto Eco presa da Il mio Dante di Roberto Benigni [2] Maraini, Gnòsi delle Fànfole, pp. 15-16 [3] Maraini, Gnòsi delle Fànfole, pp. 15-16


Martina Bosi, 5C

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