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  • Chiara Parma

Il Leone di Roma

Aggiornamento: 3 ago 2020

Italia, fine anni 20 del ‘900. In uno Stato fascista ormai da quasi dieci anni, un uomo scrive la sua storia con sangue, sudore e grossi guantoni. Un foto sfocata lo immortala nell’incontro che lo renderà campione europeo dei pesi medi: vittoria che lo getterà lentamente nel dimenticatoio; si dice che quest’uomo, dopo essersi battuto strenuamente per tutta la vita con l’arma pacifica dello sport, abbia finito i suoi giorni come portinaio a Milano e che così sia morto nel 1983, dopo sette infarti. Ma perché ha trovato la sua rovina in una vittoria così importante?

Leone Jacovacci nacque il 19 aprile 1902 in Congo. Suo padre, un romano amante dell’avventura; sua madre, una ragazza del posto, innamorata del prestante straniero.

Il padre lo riportò a Roma quando aveva solo tre anni, e lo lasciò in custodia ai nonni, perché lo crescessero come un vero italiano in un’epoca (non poi tanto diversa dalla nostra) in cui più che di spirito eri italiano d’aspetto. E difatti questa realtà iniziò a stargli stretta fin da subito, tanto che a soli sedici anni Leone si arruolò nell’esercito inglese con la falsa identità di John Douglas Walker, nella speranza che un nome anglofono si adattasse con più facilità alla sua pelle. Nel 1919, a Londra, quasi per caso, conobbe la boxe. Iniziò la sua carriera come John Walker, non più soldato afro-britannico, ma pugile afro-americano.

Con la carriera sportiva agli inizi e lo spirito nomade del padre che pulsava nelle vene, Leone attraversò la Manica e raggiunse Parigi, e cominciò a combattere sui ring francesi, mentre in tutta Europa si iniziava a parlare di lui.

Nel 1922 arrivò la sua confessione: non c’era nessun John Walker, solo Leone Jacovacci, con padre romano e madre congolese e, di diritto, cittadino italiano. E così iniziò la sua vera guerra: non con l’esercito inglese né sul ring, ma col regime fascista che si rifiutava di concedergli la cittadinanza, e quindi di farlo gareggiare in Italia e in Europa a nome del suo Paese. Sì, il suo Paese, perché, nonostante l’ostilità del regime, ben presto grazie ai suoi continui successi gli italiani cominciarono ad amarlo.

Nel 1924, dopo due anni di combattimenti che, non potendo neppure aspirare ad ottenere riconoscimenti, furono inutili, Jacovacci riuscì a battere l’allora campione italiano di pesi massimi, Rino Contro. Ufficialmente quindi, se la Federazione l’avesse riconosciuto come italiano, il pugile avrebbe potuto ottenere il titolo di nuovo campione italiano dei pesi medio-massimi. Un mese dopo inoltre sconfisse Clément, detentore del titolo di campione europeo: ormai avrebbe potuto essere già diventato campione a livello internazionale. E in effetti veniva definito da tutti il campione ma, di fatto, rimase senza titolo. Anche gli italiani cominciarono finalmente ad alzare la voce per questo mancato campione che avrebbe potuto dare allo Stato un lustro tutto nuovo nel panorama sportivo internazionale.

Più tardi, nel 1925, Jack Dempsey, campione mondiale dei pesi massimi all’epoca, lo chiamò come sparring partner. Dempsey per Jacovacci era una sorta di mito e modello, come lui stesso lascia scritto in uno dei quaderni che conservò. Nonostante tutto questo e tutte le promesse, l’Italia ancora non gli concesse la cittadinanza, tanto che Jacovacci ritornò a vivere in Francia e accarezzò l’idea di prendere la cittadinanza francese.

La cittadinanza italiana alla fine la ottenne, ma solo quattro anni dopo, nel 1928. Il 24 giugno dello stesso anno Jacovacci sfidò Mauro Bosisio, campione italiano ed europeo, allo stadio Flaminio di Roma davanti a 40.000 persone.

Lo scontro era tutta una contrapposizione: Jacovacci era potente, nero, romano, pugile del popolo. Bosisio invece era più tecnico, bianco come il latte, milanese, pugile del regime. Il romano vinse due volte, anche se la prima vittoria venne trasformata in un pareggio: Leone Jacovacci, pugile italo-congolese, diventò il nuovo campione europeo dei pesi medio-massimi. Un triste, malinconico momento di gloria, se pensiamo che subito dopo subì l’ostracismo del regime fascista, che lo cancellò dalla storia italiana.

Jacovacci è tornato conosciuto recentemente, grazie alla pubblicazione di Nero di Roma di Mauro Valeri e al documentario di Saccucci, Il pugile del duce.

Tutto questo fa rabbia, come tutte le ingiustizie.

Ma bisogna pensare che l’Italia non è stata sempre così: per esempio, il nostro primo aviatore, Domenico Mondelli, fu un uomo di colore. Eppure, nel 1940 i meticci prendevano per legge la cittadinanza del genitore indigeno, e questa legge venne cambiata solo nel 1947.

Siamo in un’Italia per cui essere neri significa essere stranieri, ma è un’Italia nata un secolo fa con il partito fascista, che è sbocciata nelle camice nere e nei campi di sterminio, che ancora persiste in noi con le sue idee disprezzabili e disprezzate. Forse ci vorrà ancora molto tempo per lavarci di dosso il petrolio che ancora ci sporca le mani, ma è giusto e doveroso riuscirci, perché non ci siano in Italia altre storie malinconicamente ingiuste come quella di Jacovacci.


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