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Diario di bordo

Quando sono partita quest’estate non sapevo bene cosa spettarmi da questa esperienza, avevo voluto fortemente che con il nostro gruppo scout avessimo la possibilità di toccare con mano il tema dell’immigrazione sul quale ci eravamo preparati per un anno. Così in cerca di un’esperienza forte, o, come si suol dire, di schiaffoni, siamo partiti alla volta di Ventimiglia, zaino in spalla, un po’ eccitati, ma pronti a metterci in gioco senza sovrastrutture.

Arrivati a Bordighera, dove abbiamo montato il campo, nel caldo soffocante di fine luglio, ci siamo accorti con sconforto che avremmo dovuto piantare le tende su uno spiazzo in terra battuta, solcato dal sole cocente e frapposto tra una ferrovia e una statale con un distributore di benzina, che di sicuro non conciliano il sonno, ma abbiamo comunque deciso di festeggiare il nostro arrivo con un bagno al mare.

Il giorno dopo, sveglia alle 6;45, abbiamo raggiunto, dopo due autobus e un chilometro e mezzo a piedi, Campo Roja, un campo che quest’estate ospitava all’incirca 200 migranti, soprattutto uomini, quattro famiglie (due nigeriane, una algerina e una albanese) e due minori non accompagnati.

Come poi Marsha, la responsabile, ci spiegherà, Campo Roja è un campo gestito dalla Croce Rossa, che si occupa di ospitare i migranti nell’attesa che questi ottengano i permessi necessari per trasferirsi in altri paesi europei, dove spesso li aspettano familiari o conoscenti e magari una promessa di lavoro. Per questo non rispetta propriamente le leggi europee, tra cui il trattato di Dublino, che ordina che i migranti inoltrino le pratiche per il permesso di soggiorno nel primo paese europeo su cui mettono piede. Infatti questione spesso dibattuta è la chiusura del campo, che però non viene mai messa in pratica, perché in fin dei conti, quando una cosa funziona bene e aiuta le persone, poco importa se non rispetta la legge...

Campo Roja è un’immensa distesa di cemento, su cui, oltre all’edificio principale, sede amministrativa del campo, sono presenti tanti piccoli container, come quelli che vengono dati ai terremotati, che ospitano le abitazioni dei migranti, i servizi igienici, una scuola, una ludoteca per i bambini e l’infermeria. Più avanti sotto un tendone di plastica vi sono tavoli e panche con una cucina da campo, questa è la mensa; ancora oltre sulla destra, in una zona recintata con tappeti appoggiati sull’asfalto, sotto quello che sembra essere il ponte di una strada, giace la moschea, il luogo dove i migranti, a maggioranza musulmani, possono pregare, con il cemento sulla testa e sotto i piedi, ma si sa, per pregare basta Dio nel cuore.

Appena arrivati nessuno ci parla, nessuno ci chiede niente, solo qualche occhiata furtiva, ma che denota almeno che si sono accorti della nostra presenza.

Giorno 1 Servizio mensa, distribuzione dei generi per l’igiene personale e attività di gioco con i bambini. Gli adulti ancora non ci parlano tanto, auguriamo buon appetito, cerchiamo di instaurare una conversazione, ma non ci conoscono ancora. I bambini giocano con noi come se li conoscessimo da sempre. Sami, autistico, mette sotto sopra la ludoteca tutte le volte, Glavis non parla, i volontari ci chiedono di aiutarla in questo, Amelia e suo fratello sono i bambini più educati che abbia mai visto, tutte le volte mi aiutano a mettere a posto i giocattoli, mi dicono in albanese dove li devo mettere, ma, siccome non capisco niente, sbaglio e la ludoteca alla fine la mettono a posto loro. Mi obbligano a giocare a calcio, a pedalare su una bicicletta troppo piccola anche per le loro gambe e a rincorrerli ovunque nel campo. Sfinita mi addormento sul tavolo dopo aver servito anche la cena, verso le dieci torniamo a Bordighera, dove ci aspetta la notturna colonna sonora dei treni che passano e fischiano.

Giorno 2 Servizio mensa, attività di gioco con i bambini, lezione di italiano. Ho speso tutta la mattinata a cercare di spiegare le doppie ad un gruppo ben nutrito tra pakistani, nigeriani, bengalesi, libici e siriani e sono convinta che non hanno capito la metà delle parole che ho detto, nonostante l’inglese elementare, i gesti e i disegni. Facciamo anche un po’ di lessico, parliamo delle parti del corpo e dei vestiti, ridiamo tanto, ma ancora tutte le volte che mi indico un piede mi rispondono sorridendo “foot”, “Giusto! Ma in italianooo!?!?” Silenzio di tomba, finché timidamente Bukhar non dice “Pede”. Mi viene da piangere. Da quel giorno ogni mia fatica viene ripagata da Bukhar e i suoi amici, che ogni volta che mi vedono, da una parte all’altra del campo, urlano “Hiiiiiiiiiiiiiiiiiiii, teacheeeerrrr!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!”

Conosco Bilal, ingegnere siriano che aspetta di ricevere i permessi per andare in Belgio a giocare in una squadra di calcio perché è molto talentuoso, parla solo arabo così mi servo di Bruno, ragazzo ventenne della Libia, in Italia da quattro anni, che parla italiano meglio di me. Alla fine nessuno traduce più e i due continuano a parlare in arabo da soli e io rimango lì a non capire niente, tra una parola e l’altra distinguo soltanto il nome di Ronaldo...

Giorno 3 Servizio mensa, lezione di italiano, pulizia dei container. Oggi il cuoco è Michael, un uomo sulla trentina, proveniente dalla Tanzania è arrivato in Italia da ragazzo, dopo che un gruppo di volontari italiani lo aveva portato con sé, col consenso della madre, per l’opportunità di un futuro migliore. Michael in realtà è un guerriero Maasai, ci racconta della sua vita, delle sue mucche e del suo villaggio, dell’amore travagliato del suoi genitori che appartenevano a tribù diverse, del leone ucciso come rito di iniziazione e della moglie italiana, con cui ha due bellissimi bambini. Probabilmente l’incontro più arricchente di tutti questi giorni, lo ricorderò sempre con un affetto enorme.

Nel pomeriggio sembra che si stia diffondendo il pericolo della scabbia, non improbabile visto il caldo soffocante e le condizioni igieniche non proprio impeccabili. Così cominciamo a pulire i container con l’idropulitrice e una bottiglia e mezzo di cloro e disinfettante per ogni container, finalmente vedo davvero le condizioni di vita di queste persone e mi vergogno di essermi lamentata tanto del treno che passava di notte. Mi giro, Glavis mi sorride, allora mi faccio forza e comincio a pulire.

A cena ormai nessuno ci tratta più come estranei e tra il rap afghano e una risata, ad un certo punto improvvisiamo addirittura un balletto, nonostante l’estrema povertà e la cornice di degrado della moschea di cemento sullo sfondo, sono tutti felici.

Giorno 4 Fiesta. Il nostro ultimo giorno di servizio lo passiamo semplicemente dedicando attenzione a tutti, riusciamo a far parlare Glavis, insegniamo la briscola ai pakistani, giochiamo a calcio, diamo le ultime lezioni di italiano. Ma per l’ultimo giorno abbiamo organizzato qualcosa di molto speciale, ben presto riempiamo i gavettoni e cominciamo a tirarceli addosso finché non siamo zuppi fin nelle scarpe, nessuno è stato risparmiato, nemmeno la responsabile del campo. I bambini girano in mutande, gli uomini si rincorrono con le bacinelle ricolme e noi scappiamo da ogni agguato, ma inutilmente. Mohamed mi ferma un attimo e mi ringrazia per aver parlato con lui in questi giorni, mi regala un paio di suoi occhiali da sole e un coniglio rosa, la donna anziana che lui tratta come sua mamma mi benedice in arabo, mi inchino e mi viene da piangere perché io non ho niente di tanto prezioso da regalargli. Così mi ritrovo improvvisamente più povera di loro e slegato un nastrino che portavo al polso glielo regalo. La sera prepariamo la pizza, è una grande festa, mangiamo tutti, balliamo, ci raccontiamo storie, giochiamo, poi non senza fatica, versando qualche lacrima, torniamo a Bordighera.


E il prossimo che mi dice che l’integrazione è una cosa difficile lo spedisco direttamente a Campo Roja.

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