Nel nostro devotissimo Liceo Virgilio si studiano attualmente sei lingue vive, il che, esposto in tal modo, non sembra essere una dato particolarmente consistente, considerando che al mondo si contano tra le 6000 e le 7000 lingue vive. Queste sei lingue rappresentano però la lingua ufficiale del 34% del territorio mondiale, con un totale approssimato di 2 miliardi e 83 milioni di parlanti totali. I numeri però parlano chiaro: se solo sei lingue vengono parlate nel 34% del mondo significa che nel restante 66% si distribuiscono tra i 5994 ed i 6994 idiomi, il che in semplici termini corrisponde a circa 98 lingue per ogni 1% di territorio. Affollato, non vi sembra? Purtroppo questa moltitudine di lingue lascia inevitabilmente un alto numero di vittime, secondo l’UNESCO ogni 14 giorni una lingua muore, silenziosamente. Questo sembra essere purtroppo il destino della quasi totalità di queste 6000/7000 lingue, tra cui l’italiano per esempio, ma ci tengo a parlarvi in particolare del caso dell’islandese. Tutti oggigiorno conosciamo l’Islanda, terra di vulcani, geysers, muschio e calciatori attraenti ma un po’ scarsi. Mentre un decennio fa la maggior parte della gente ne ignorava l’esistenza, in tempi recenti sembra essere diventata una delle mete più gettonate dai turisti di tutto il mondo: in sette anni è passata da 500 mila turisti registrati in un anno (2010) a 2,2 milioni (2017). La lingua islandese è a detta di tutti un mostro di resilienza: già nel Diciottesimo secolo si percepiva un senso di precarietà nella vita dell’islandese, il quale, inoltre, ha anche subito tentativi di abolizione all’inizio dell’Ottocento. Ora più che mai, però, si sta vivendo un momento di crisi linguistica. Con l’arrivo in massa dei turisti e con lo stabilirsi permanente di molti di questi, le nuove generazioni si stanno sempre di più abituando alla coesistenza dell’inglese e dell’islandese, ben diversa dal mero utilizzo dell’inglese come lingua di transito. Un recente sondaggio ha riportato che un terzo degli adolescenti trai 13 e i 15 anni ritiene normale l’utilizzo esclusivo dell’inglese con i propri coetanei madrelingua islandese. Scritto su carta non rende particolarmente l’idea ma è come se con 7 delle mie 22 compagne di classe io parlassi solo ed esclusivamente spagnolo, quando tre di queste vivono tra Porto Mantovano e Goito, due hanno discendenza veneta e le restanti sono orgogliose abitanti della “Bassa”. Ed è proprio questo che è allucinante: che due giovani ragazzine di Akureyri si trovino al pomeriggio dopo scuola e invece di parlare della “snjór” che è caduta quel giorno parlino della “snow” e che invece di parlare di quel “strákur” carino con il ciuffo biondo parlino del “guy”. In ogni caso ci sono fenomeni ben più allucinanti nella realtà islandese: in centro a Reykjavík, non lontano dal porto, c’è lo storico ristorante di fish&chips della città, aperto da ben prima che tanti di noi nascessero. Attualmente non vi lavora neanche un nativo islandese e solo uno dei quattro camerieri che lavorano in sala riesce a costruire un abbozzo di frase in lingua locale. Di nuovo, questo fatto può sembrare irrilevante ma pensate all’anziano del caso che frequenta questo storico ristorante da quando era ragazzo e che adesso non può neanche ordinare nella propria lingua perché non viene compreso. Purtroppo notare i cambiamenti e le evoluzioni di una lingua parlandola ogni giorno è pressoché impossibile, e solo attraverso eventi particolari come questi ci si può accorgere di tali variazioni. Con questo, chiedo a voi, miei cari compagni e compagne, di prestare più attenzione a casi simili a quelli dell’islandese e non ridurre la conoscenza delle lingue alla sola conoscenza di quelle predominanti.
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