Nonostante un governo oppressivo, come quello che il presidente Aljaksandr Lukašėnka amministra in Bielorussia da 26 anni, il popolo mantiene viva la speranza, senza piegarsi completamente al regime. Arriva sempre, però, un momento in cui la libertà diviene più importante della sottomissione: così le proteste hanno inizio.
Quando Lukašėnka venne eletto presidente per la prima volta, nel 1994, la sua politica pareva in grado di rendere la Bielorussia un paese autonomo e libero dalla corruzione, ma le sue azioni divennero presto spregiudicate.
Pur avendo emarginato il paese dai rapporti internazionali, scatenando numerose proteste, venne eletto una seconda volta, e poi una terza. Fu la terza elezione a far luce sul suo desiderio di potere. Infatti, emanò un decreto per estendere il numero massimo di mandati presidenziali in Bielorussia, che, fino a quel momento, erano solo due. Lukašėnka non si è limitato a sostenere tre mandati, né quattro, ma è stato presidente per cinque volte. É proprio nel 2020, alla vigilia del sesto mandato, che, non accettando la propria sconfitta, l’ha negata pubblicamente e ha falsificato i risultati delle elezioni a suo favore. La popolazione non ha aspettato oltre: si doveva agire.
A partire dal 24 maggio, a Minsk, la capitale, e quasi in ogni altra città del paese, centinaia di bielorussi sono scesi nelle piazze per protestare contro la situazione politica. I protestanti non condannano solo l’assenza di democrazia, ma anche la mancanza di libertà nell’espressione, nella parola, perfino nei diritti dell’amore. I cittadini non si fermano nemmeno di fronte alla violenza e agli arresti: l’obbiettivo diventa più importante di ogni altra cosa.
Gli esempi di grande coraggio non mancano: l’emblema della protesta attiva è rappresentato da tre donne non coinvolte nella politica: Svetlána Tichanovskaja, Maria Kolesnikova e Veronika Tsepkalo, che hanno formato una coalizione in opposizione al governo di Lukašėnka. L’obbiettivo era permettere a Tichanovskaja di essere eletta presidente, per donare al paese una democrazia concreta. La donna avrebbe potuto raggiungere il suo obbiettivo, se la politica di violenza attuata dai sostenitori del presidente non l’avessero costretta a fuggire in Lituania, dove è rimasta per mesi. Anche se in una condizione simile all’esilio, lontana dai figli e dalla patria, Tichanovskaja non abbandona la battaglia: rilascia dichiarazioni ai giornali internazionali e fa luce sulla condizione della Bielorussia. In un’intervista di dicembre al settimanale americano “The New Yorker” afferma: “La democrazia è anzitutto rispetto per ogni singola persona nel paese, per i loro diritti, la loro individualità, le scelte che compiono. Poi è la partecipazione di ognuno. Un cittadino non vive solo per sé stesso, ma è responsabile delle decisioni dello Stato e ne deve essere consapevole. La democrazia deve essere dentro ogni persona.” Mentre Tichanovskaja parla, è certa che un giorno, non molto lontano, farà ritorno in un paese libero. Perché, proprio ora, i cittadini bielorussi lottano instancabilmente per il ritorno dell’equilibrio politico e sanno di rappresentare il Bene nell’unità delle loro voci.
Cicerone diceva che il buon cittadino è quello che non può tollerare nella sua patria un potere che pretende d'essere superiore alle leggi. Il popolo della Bielorussia ha dimostrato che combattere per l’equità del governo è un dovere, perfino se la sconfitta pare inevitabile, e a costo di subire atti di violenza. L’importanza è non tacere di fronte all’ingiustizia, ma diventare il soggetto di una frase che parla di libertà.
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