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aliceroffia2003

Non mi dite DAD

Non mi dite che andrà tutto bene.

Non mi dite che andrà tutto bene quando so che sta andando tutto male.

Vivo nel presente, non nel futuro che il Governo continua a modificare di giorno in giorno propinandomi soluzioni diverse quanto irrealizzabili, come se la mia mente fosse uno di quegli elastici colorati che le bambine usano per legarsi i capelli alle elementari.

Non le vedo più le bambine con gli zaini a fantasia più grandi di loro, con il sorriso sdentato e la leggera timidezza che le fa stringere alla mano delle madri mentre vanno a scuola.

Mi era servito storcermi il naso correndo incontro a un albero, mi era servito ricevere uno spintone e dare un abbraccio per imparare dove finivo io e iniziava l’altro. Ora è come se i bambini fossero rinchiusi nella scatola invisibile del mimo, un banco dal quale non possono mai alzarsi se non con il sorriso nascosto da un pezzo di stoffa e le mani che puzzano di alcol disinfettante: così imparano quale sia il loro spazio, in un mondo piatto, apatico e dominato dal terrore di infettare e infettarsi.

La loro socialità si costruisce sull’idea di protezione dell’altro da se stessi, mantenendo le distanze suggerite dagli adesivi rossi che la scuola ha appicciato sui suoi pavimenti, adesivi dello stesso colore che nelle corride spagnole animano i tori spingendoli all’istinto folle e irrazionale dell’uccisione.

Ai più grandi, che per età anagrafica ed esperienza dovrebbero essere in grado di gestire la propria attenzione, è imposta una sorta di accompagnamento all’isolamento: la didattica a distanza.

Mai come quest’anno mi sono sentita grata, grata per aver potuto apprezzare la condivisione di un libro con il mio vicino di banco, grata per aver potuto lasciare asciugare le lacrime di delusione agli amici, per aver potuto ricordare l’importanza del ridere e del discutere con la classe e per aver capito finalmente quanto piacere e senso di libertà possa infondere imparare.

Gesti e passi ridotti a movimenti macchinosi e scattanti dietro a uno schermo, visi a metà perché la tecnologia non è la migliore amica degli adulti, occhi persi che girano come pianeti su orbite diverse. Lunghi capelli che non vedono spazzole da settimane e simpatici pigiami natalizi che danno la sensazione di un’atmosfera intima che rende tutti partecipi e che quindi di intimo non ha più nulla.

La perdita del sé, dei valori e della socialità: questi gli effetti di una didattica che risponde difficilmente al significato della parola con cui viene definita.


La dimensione particolare del singolo è persa in un’universalità vaga e uniforme costituita da tanti piccoli quadratini che limitano la visione e l’immaginazione, che permettono di riordinare il pezzo di corpo esposto a tutti e lasciano alla deriva tutto ciò che va al di sotto del bacino e rimane nascosto. La pelle ha sviluppato un’intolleranza a tutti quei tessuti che non siano cotone morbido o pile, i jeans rimangono appesi e chiusi dentro l’armadio e i visi adolescenziali si sono scordati il colore roseo delle guance dovuto alla reazione all’aria fredda, sostituito da un monotono pallore giallo o grigio, a seconda dell’intensità con cui ci si punta in faccia la lampada sulla scrivania.

Scrivania se si è fortunati, se si è figli unici e si vive in una casa dove la connessione funzioni anche nella propria camera, con la porta chiusa. In tutti gli altri casi tavoli di cucine e soggiorni vengono convertiti a luoghi di apprendimento e contemporaneamente ospitano il viavai caratteristico delle loro funzionalità tipiche.

Il corpo non è più lo stesso, fatica a rispondere e modifica la propria struttura muscolare e scheletrica invecchiandola precocemente, modellandosi seguendo la forma della sedia. Perdita e aumento di peso, curve fisiologiche alterate, arti inferiori costretti a posizioni improbabili, diottrie rubate dai pixel del computer: queste le torture a cui è sottoposta la materia organica.


Vicine alla distruzione fisica, l’integrità morale e l’educazione si stanno consumando come una candela che prova ostinatamente a tenere viva la piccola fiammella ormai sommersa dalla cera sciolta accumulata.

“Online il tutorial per fregare i prof: “a distanza controlli impossibili”, La Stampa, 21 Novembre 2020.

Questo il titolo di un quotidiano italiano più che centenario, questo il raggiungimento che possiamo vantare nel 2020: l’insegnamento dell’inganno e delle scorciatoie buie.

Dal mondo mi sarei immaginata macchine volanti, tecnologia industriale iper avanzata, riforme all’avanguardia. Ora realizzo che di tutto questo rimane solo la necessità di essere controllati: esattamente come i rivoltosi si placano solo con la repressione della polizia, noi giovani adulti ormai diciottenni abbiamo ancora bisogno di sentire il potere del ruolo e della minaccia incombere su di noi per spingerci ad agire correttamente e senza sotterfugi.

La generazione che si propone la rivoluzione degli stereotipi, l’innovazione e il progresso, quella stessa generazione che appena ne ha la possibilità opta per la via più semplice, non dando peso a quanti grammi di giustizia ci siano nelle sue scelte, viene premiata e incoraggiata da un sistema mal funzionante in grado di far risultare i docenti completamente incapaci di intendere ed estremamente facili da raggirare, quando in realtà altro non sono che messi spalle al muro dall’impossibilità di denunciare copiature o imbrogli.

“Per accusare servono prove certe e verificate”: così vengono scagionati dalla possibilità di essere additati dai pochi onesti, come complici nell’indifferenza. Al ritiro dei biglietti stracolmi di suggerimenti durante una prova in presenza dovremmo far equivalere l’hackeraggio, da parte dei docenti, dei file word con il copia e incolla del testo da recitare durante l’interrogazione come fosse una delicata poesia di Shakespeare?

E’ una possibilità inesistente in partenza e di conseguenza un’accettazione a priori di qualsiasi comportamento, ammissibile o meno che sia.


La rassegnazione: costante nel tono dei professori, quasi sembra di poterla controllare con il cursore dell’audio del computer.

L’interazione visiva, vocale e gestuale è quasi totalmente assente, gli alunni riescono a fissare gli statici Power Point per pochi minuti, dopodiché l’attenzione precipita sulla mosca che vola passando davanti ai loro occhi. In tutto ciò il professore prosegue per una o più ore in un monologo unilaterale (come dice la parola stessa), senza poter dedurre dal sospiro di uno sbadiglio, da un cenno di assenso o dalle palpebre cadenti dei ragazzi, se il suo discorso sta producendo qualche effetto o sta seminando in un campo sterile.

Le voci di una canzone, di un film o del personaggio di un libro, si sovrappongono alle spiegazioni di filosofia, scienze o arte, riducendo la didattica alle scelte del libero arbitrio di quindici, sedici, diciassettenni che, se pur di non rispettare una consegna fingono di non sapere inviare una mail, sanno perfettamente come togliere l’audio alle piattaforme per le lezioni.

Ad una perdita culturale già evidente e che non può prescindere da quanto appena detto, il taglio delle ore e del programma formulato dal Ministero dell’Istruzione, lascia poco scampo al salvataggio di un sapere solido: tempo educativo e contenuti fondamentali si sottraggono al bagaglio personale di ogni studente, rendendolo sempre più povero e sempre più predisposto a lasciarsi catturare da sistemi manipolatori. Dall’aderenza a un partito politico alla scelta di un programma televisivo: la nostra mente ormai poco sollecitata, sarà molto più semplice da lavorare per mezzi estranei e sempre meno invogliata alla ricerca autonoma di informazioni.

Sono una studentessa, parte di quei tanti schiacciati dal peso di una scuola che ora non funziona.

Mi chiamo Alice, ho diciassette anni, e riassumendo quanto sopra citato sono fermamente convinta che, andando così male ora, difficilmente andrà tutto bene un domani.


Alice Roffia 4A


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