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  • Immagine del redattoreSara Pietrini

Pregiudizi e benefici del bilinguismo



Oggi il bilinguismo è un fenomeno sempre più presente nella società: la globalizzazione ha reso imprescindibile la conoscenza dell’inglese, lingua internazionale per antonomasia, mentre flussi migratori hanno contribuito all’incremento di questo fenomeno di variabilità linguistica. Nel 2019 la Commissione Europea ha riportato che circa il 65% degli europei sa sostenere una conversazione in una o più lingue diverse.


Nonostante il termine bilinguismo, nella connotazione comune, sia riferito a chiunque conosca due idiomi, viene da chiedersi: chi si può definire davvero bilingue? In che lingua pensa un bilingue? Conoscere più lingue potrebbe modificare le strutture cerebrali? Il cervello di un bilingue ha una conformazione differente? È possibile diventare bilingue da adulti?


In questo articolo ho cercato di dare una risposta a queste domande, portando le riflessioni di diversi studi.

Innanzitutto sono da considerare bilingui sia i parlanti nativi, che per le loro origini le parlano sin da piccoli, chi ne ha una competenza molto avanzata anche se appresa in età successive, sia chi la pratica regolarmente con adeguate capacità, in modo efficace in una situazione comunicativa.


Ulteriori differenziazioni delle tipologie di bilinguismo sono delineate dal concetto di “età di acquisizione” in base al quale si distingue tra bilingui precoci, ossia coloro che hanno appreso due lingue contemporaneamente sin dalla nascita (bilinguismo simultaneo), o durante l’infanzia (bilinguismo consecutivo), oppure poco prima della pubertà (in questo caso viene definito bilingue consecutivo tardivo). Per quanto riguarda il bilinguismo in adulti e adolescenti, molti ricercatori adottano l’espressione “acquisizione di un secondo codice linguistico”, invece che bilinguismo tardivo.


Siccome è comune che i poliglotti utilizzino lingue diverse per specifiche attività (per esempio una a lavoro e un’altra a casa), il sistema cognitivo deve abituarsi a sceglierle in base al contesto, inibendo l’idioma che al momento non si sta adoperando, al fine di evitare interferenze o confusione di termini, mantenendolo disponibile e attivo all’occorrenza. La perenne selezione della lingua più opportuna in una data situazione comunicativa permette lo sviluppo di un maggior senso del controllo e di un’attenzione selettiva più accurata, abilità che facilitano un passaggio più rapido da un compito a un altro, dunque un miglioramento delle “funzioni esecutive” e di quei processi cognitivi di pianificazione, coordinazione e decision making.


Ci sono diverse teorie riguardanti l’acquisizione di un codice linguistico. I primi sono i comportamentisti, come Skinner (1957), che sottolineano che l’apprendimento delle lingue è un processo meccanico basato esclusivamente su stimolo-risposta, condizionamento e rinforzo. Quindi, si apprende attraverso un processo di tentativi ed errori, in cui i discorsi accettabili sono elogiati, rafforzati, e quelli inaccettabili sono inibiti o abbandonati per la mancanza di ricompensa.


L’approccio nativista, invece, considera l’acquisizione del linguaggio come una capacità genetica innata, secondo cui siamo predisposti ad assorbire la lingua e poi interiorizzarla sotto forma di ragionamento, ma rielaborandola in modo creativo (Chomsky,1965). Infatti un infante riesce a padroneggiare la lingua madre in breve tempo, sperimentando le parole, riadattandole per renderle coerente al discorso, con regole morfosintattiche precise.


L’approccio costruttivista ha superato questa visione legata alla parte più esplicita e funzionale del linguaggio. I ricercatori si sono concentrati sulle capacità cognitive e affettive, considerando il linguaggio un prodotto che si costruisce nell’interazione sociale e che influenza come ci rapportiamo con il mondo esterno (con gli altri) e con quello interno.


Normalmente un bambino inizia a parlare con la lallazione (ripetendo le sillabe uguali es. ma-ma) intorno ai 6 mesi. Verso i 9 mesi sviluppa la comunicazione verbale intenzionale, con parole simbolo a volte storpiate (mamma-cotto per dire: “mamma voglio il biscotto”), mentre le prime parole sono enunciate intorno ai 12 mesi. Verso 18 mesi si ha un arricchimento del vocabolario e dai 24 mesi la formazione di frasi complete con soggetto verbo e complemento. Dai 24 ai 36 mesi si assiste a un grande sviluppo grammaticale che consente loro di formulare proposizioni dichiarative.


Questo iter evolutivo vale anche per i bilingui? Monolingue e bilingue utilizzano le stesse vie neurali?

Il linguaggio ha due sedi nel cervello: l’area di Wernicke e l’area di Broca. Per 90% delle persone queste due aree si trovano entrambe nell’emisfero sinistro. L’area di Wernicke è una zona deputata alla compressione sia del linguaggio scritto che parlato ed è responsabile di come le parole e le sillabe sono pronunciate. L’area di Broca è una regione del lobo frontale del cervello ed è legata alla produzione del discorso. Queste due aree sono collegate tra loro da strutture neurali del cingolo arcuato. È importante tenere presente che diventare parlanti di due o più lingue è un percorso in cui si integrano fattori sociali, ambientali, neurologici, biologici e che il funzionamento del cervello è molto diverso a seconda dell’età: ha una plasticità maggiore nei bambini al di sotto dei 7 anni, che diventano bilingue senza nemmeno accorgersene, poiché utilizzano i vari emisferi in maniera più omogenea. Tuttavia, è necessario che anche l’ambiente fornisca degli input costanti nel tempo e di qualità affinché l’acquisizione avvenga.


Tramite i nuovi sistemi di neuroimmagine (encefalogrammi, risonanze cerebrali, PET, ecc.) si è riuscito a mostrare cosa accade nel cervello quando si è esposti a uno stimolo linguistico e si sono studiati gli effetti del bilinguismo nell’encefalo. Un gruppo di ricercatori svedesi ha constatato che imparare una lingua, anche in età adulta, può avere degli effetti visibili sulla morfologia del cervello, attivando più aree.


Una serie di studi sembrano indicare che i bilingui utilizzino lo stesso percorso, per entrambe le lingue, ma hanno delle zone cerebrali più ampie, sviluppate e specializzate che si attivano più rapidamente. Monolingui e bilingui presentano le stesse strutture neurali: area di Broca, Wernicke, cingolo arcuato che le collega, l’attigua via ventrale (detta anche la via del “cosa”, situata nel lobo temporale, si occupa di trasformare gli input acustici in informazioni dotate di significato) e la via dorsale (chiamata la via del “dove”, sita nell’emisfero sinistro e ha il compito di codificare il suono e convertirlo in memoria motoria).


Secondo la neuroscienziata Nacamulli, essere bilingue potrebbe portare allo sviluppo di più aree specializzate nella codifica e decodifica dei suoni, nella zona della corteccia uditiva, ma anche nelle regioni pre-frontali zone deputate al controllo esecutivo e all’associazione tra parole e loro significati.


In che lingua pensa un bilingue?

Un bilingue bilanciato possiede competenza di riproduzione di suoni, significati, numero di vocaboli, di scrittura e lettura in maniera quasi identica per entrambe le lingue, le parla per lo stesso tempo, e pensa nell’idioma che in quel momento sta utilizzando nella conversazione, inibendo per un attimo l’altra lingua, che però rimane sempre attivabile in ogni evenienza.

Vi sono bilingue che hanno una preferenza per una lingua dominante che conoscono meglio, che parlano con maggior frequenza e che adottano per il ragionamento. Per poter diventare competenti occorre che la lingua minoritaria, non dominante, venga adoperata per un minimo del 30% del tempo nelle interazioni sociali e con interlocutori capaci, e che vi sia data la possibilità di apprenderne anche come viene scritta oltre che enunciata.

Pertanto, è possibile diventare bilingue da adulti (pensiamo a chi si trasferisce in un altro stato dopo l’università). Nonostante la plasticità cerebrale è inferiore a quella dei bambini, anche gli adulti immersi in altro idioma riescono ad acquisirlo in modo avanzato e competente se vi sono esposti per un tempo sufficiente ad esercitarlo, a memorizzare i vocalizzi, a capire come riprodurli e, grazie alle capacità cognitive già mature, possono comprenderne agevolmente le regole morfo-sintattiche.


I bilingui non dovrebbero essere paragonati ai monolingui solo nel criterio della quantità di vocaboli che conoscono in una lingua. Un monolingue può conoscere più parole riferite a oggetti diversi, mentre il bilingue spesso ne conosce meno, ma, siccome conosce le parole sia in un idioma che in un altro, la quantità totale dei termini è similare. Il pregiudizio di considerare l’abilità linguistica solo sul numero di vocaboli conosciuti di una lingua, determina spesso un’errata percezione nei bilingui che di frequente sentono di avere una competenza inferiore rispetto al monolingue o in molte circostanze percepiscono la loro competenza bilingue come ignorata e non del tutto valorizzata. L’importante è comprendere quali sono i pregiudizi comuni nei confronti del bilinguismo e capire quali sono i vantaggi che esso invece comporta.


Da sfatare sono anche le false credenze che vedono nell’acquisizione precoce di due o più lingue un fattore di rischio per eventuali interferenze linguistiche o peggio ritardi di apprendimento, o di eccessivo sforzo cognitivo per il bambino.

In primis, i poliglotti possiedono una maggiore conoscenza spontanea del funzionamento del linguaggio: sviluppano un’accurata abilità di distinzione tra forma e significato delle parole. In altri termini, sono capaci di intuire naturalmente che un concetto, come “cane”, possa essere riprodotto in suoni e forme linguistiche differenti (dog in inglese, perro in spagnolo, chien in francese, Hund in tedesco) ma riferirsi alla stessa rappresentazione mentale. In sostanza, associano più termini a uno stesso significato, e rappresenta il motivo per il quale parecchi bilingui imparano a leggere prima dei monolingui: sono facilitati nel riconoscimento di una corrispondenza tra lettere della lingua scritta e suoni della lingua parlata.

Un altro beneficio è il fenomeno del decentramento cognitivo (definito in psicologia “teoria della mente”) il quale ribadisce che l’acquisizione di una lingua diversa da quella madre aumenti la capacità di vedere il punto di vista altrui, poiché il bilingue è abituato a scegliere e adattare l’idioma in base alle caratteristiche e preferenze del suo interlocutore, sviluppando, quindi, una maggior consapevolezza dell’altro e una flessibilità mentale più acuita nel sintonizzarsi.


Conoscere più lingue, inoltre, permette di avere più sbocchi professionali, maggiori possibilità di ricollocazioni lavorativa, anche con riconoscimenti economici più prestigiosi.

Oltre a ciò, alcuni esperimenti sono giunti alla conclusione che i bilingui riescono a gestire meglio le reazioni emotive, a controllarle, evitando di reagire impulsivamente, prendendo delle decisioni più razionali e consapevoli, appunto perché hanno esercitato l’abilità di riflettere prima di parlare, ponderando in quale lingua esprimersi.


In conclusione, i vantaggi linguistici e cognitivi offerti dall’uso attivo di due lingue sono ottimi motivi per incoraggiare il bilinguismo già nella prima infanzia, al fine di mantenere attive anche le lingue minoritarie: la società e la scuola devono promuovere la conoscenza delle varietà linguistiche e organizzare occasioni di acquisizione di altre lingue anche negli adulti.

Sara Pietrini 4CL


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