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Immagine del redattoreSofia Brombini

Stella cadente

Buio. Apro gli occhi. Sono circondata da muri, sembrano molto antichi. Mi accorgo di essere coricata su della terra, secca, sembra quasi bruciata intorno a me. Mi rialzo con fatica, ma una fitta alla testa mi fa vacillare e sono costretta ad appoggiarmi alla parete più vicina. Non capisco come possa essere arrivata qui: l’ultima cosa che ricordo è la faccia arrabbiata di mio cognato, il divino Zeus, mentre mi spinge all’indietro, noncurante delle dolorose grida di mio marito, il mio dolce Dioniso.

Mi guardo intorno, fa freddo, non vedo i raggi del sole, l’unica cosa che mi permette di vedere poco più di due piedi dal mio naso è una strana luce, rossa, soffusa, quasi temesse di illuminare un luogo così tetro. Mi rendo conto che il muro al quale sono appoggiata è appiccicoso. Mi allontano di scatto con un piccolo capogiro e mi passo una mano tra i capelli: bagnati. Mi guardo i palmi, sono ricoperti di un denso liquido scuro. Lo porto alla bocca: sa di ferro. Per un momento il panico prende possesso del mio corpo. Non può essere sangue, non mio per lo meno, santi numi, sono una dea, nelle mie vene scorre unicamente icore dorata. Un vago desiderio di scoprire la verità mi spinge ad addentrarmi nelle tenebre di questo luogo che mi sembra avere un aspetto familiare.

Già dopo la terza curva faccio fatica ad orientarmi ed un lugubre pensiero si sta facendo strada nel mio animo. Dopo ore interminabili, è facile perdere la misura del tempo quando ti trovi in mezzo ai demoni oscuri della notte, decido di dare fine alla mia penosa esplorazione e tornare indietro. Le mie paure erano fondate. Non trovo più la strada del ritorno, ogni corridoio sembra essersi spostato con lo scopo di farmi smarrire la retta via. All’improvviso delle urla squarciano l’aria intorno a me, facendomi mancare il respiro. Decine, centinaia di migliaia di voci mi esplodono nella testa. Voci di bambini, giovani guerrieri e ridenti fanciulle che non hanno ancora varcato la soglia della maggiore età, gridano di dolore, strida acute che provengono da ogni parte degli infiniti corridoi. Corro, tappandomi le orecchie per non sentire quello strazio, inutile.

Cado a terra, stremata, tra lacrime e tremitii e, come un fulmine nelle serene notti d’estate che ero solita ammirare con il mio innamorato, le voci spariscono all’improvviso, facendo cadere un silenzio tombale. Alzo la testa e lo vedo: un immenso portale con inciso sopra un toro. Lacrime salate cominciano a scendermi dal viso: so dove sono, la più grande opera architettonica di tutti i tempi, il palazzo di ossa, il Labirinto di sangue, la casa dalla quale sono scappata tanto tempo fa, decisa a non tornare mai più.

Entro nel grande spiazzo e rimango inorridita dalla visione che mi appare davanti: il campo è disseminato di scheletri, troppi per contarli in una sola vita. Al centro della pianura di ossa vedo un trono di pietra, ben lavorato, come quello che una volta aveva fatto costruire mio padre per sé. Una forza divina mi spinge verso questo e mentre cammino, osservo gli scheletri attorno a me: piccoli. Sul trono c’è un diadema bianco, formata da ossa così minute che non pensavo nemmeno una persona potesse possedere.

Mi siedo e appena poso la corona sul mio capo sento riecheggiare la voce del padre di tutti gli dei: <<Stupido essere, davvero pensavi di essere invincibile solo perché hai sposato un dio? Ti sei mai chiesta perché il tuo ventre è così arido? Questa è la tua progenie e questo è il tuo destino, verrai punita perché non hai mai fatto nulla per salvare queste povere creature dalla furia omicida di tuo fratello e rimarrai rinchiusa qui, come carceriera dell’inferno, sciocca dea, stella caduta dalla volta celeste dell’Olimpo, e questa volta nessuno ti libererà dalla tua condanna>>.

Ti prego mortale, non fare mai del male ad un bambino, non ho mai voluto far soffrire nessuno, ma la Moira non è stata clemente con me e di certo io non lo sarò con te.

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