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Alessandro Cavaletti

Sulpicia, la storia di una poetessa a lungo sconosciuta

“Venuto è infine amore, e vergogna maggiore

mi sarebbe averlo tenuto nascosto

di quanto sia infamante averlo rivelato a tutti.

Commossa dai miei versi, Citerea l’ha portato a me,

deponendolo sul mio seno.

Ha sciolto le promesse Venere: racconti le mie gioie

chi gode fama di non averle mai avute.

Io non vorrei affidare parola a tavolette sigillate,

per il timore che qualcuno le legga prima del mio amore.

Ma questo peccato m’è dolce;

m’infastidisce atteggiarmi a virtù:

tutt’al più si dirà ch’eravamo degni l’una dell’altro.”

La storia che vorrei farvi conoscere oggi, Virgiliane e Virgiliani, è la storia di una donna, sì di una donna molto speciale, ma che allo stesso tempo sperimentò le passioni e i sentimenti umani come tutti noi, e le cui vicende e opere, sono ancora oggi in gran parte sconosciute e/o perdute. Sulpicia visse a Roma nell’età di Augusto ed era figlia dell’oratore Silvio Sulpicio Rufo, a sua volta figlio dell’omonimo (come spesso era usanza a Roma) giurista. La madre si chiamava Valeria, sorella dell'uomo politico e generale romano Marco Valerio Messalla Corvino, che istituì intorno all'anno 30 a.C. un circolo letterario di cui fecero parte, tra gli altri, i grandi poeti, che ancora oggi leggiamo e studiamo, Tibullo e Ovidio. Apparteneva, dunque, a una famiglia di tradizione aristocratica, in un periodo di grande fermento letterario, in cui anche i mutamenti della condizione delle donne avevano comportato una certa emancipazione femminile: a partire dal II sec. a.C. infatti le vecchie regole giuridiche, che prevedevano il trasferimento della moglie nella famiglia del marito per essere totalmente sottoposta all’uomo, caddero in disuso e fu introdotto il matrimonio consensuale, per cui era sufficiente che i due futuri coniugi decidessero di vivere insieme con l’intenzione di essere marito e moglie. Sulpicia aveva avuto la possibilità di frequentare intellettuali e poeti che si raccoglievano intorno al circolo di suo zio Messalla, contrapposto a quello di Mecenate. Ella rappresenta la più bella e interessante testimonianza letteraria femminile della latinità. Il fatto, però, che l’opera di una donna di quel tempo sia arrivata a noi solo nel corpus del poeta Tibullo, ci dice molto sui pregiudizi nei confronti della condizione del genere femminile nell’antichità. Le opere di Sulpicia furono attribuite a un uomo perché le donne non avevano canali per far conoscere e diffondere le loro opere, e forse il più delle volte non pensavano nemmeno di farlo. Inoltre non si prendeva neanche in considerazione di tramandare ai posteri una produzione femminile. Anzi, in un certo senso è stata una fortuna che le sue poche poesie a noi pervenute (sei brevi elegie, in tutto una quarantina di versi), siano state attribuite a Tibullo, perché in tal modo si sono salvate. La storia che Sulpicia ha voluto trasmettere tramite la sua poesia è la sua storia d’amore con Cerinto, il suo innamorato. All’interno della scarsità di voci femminili della letteratura latina colpisce la freschezza, l’espressione diretta dei sentimenti, la spontaneità dei versi di questa poetessa, grazie ai quali oggi è possibile conoscere come una donna romana vivesse le proprie emozioni d’amore. Leggendo infatti i versi sopraccitati, si nota come ella esulta quando sente il suo amore realizzarsi e non vuole nasconderlo, intende rovesciare i canoni tradizionali della morale, non vuole atteggiare il viso per conservare una buona reputazione, ma sottolineare il legame di intensa reciprocità amorosa con l’amato. Dai piccoli stralci, a noi giunti, tratti dalle sue elegie possiamo affermare che Sulpicia è una poetessa di carattere, determinata ed emancipata, fuori dalle regole, che si ispira ai poeti neoteroi e, in particolare, alle poesie di Catullo, e considera insensato chi non si abbandoni senza riserve alla passione amorosa. Se Sulpicia è la sola poetessa romana di cui ci è giunta la voce, ritenere, tuttavia, che sia stata l’unica donna del suo tempo a scrivere versi sarebbe un’affermazione errata. La produzione femminile è stata sempre ignorata dai divulgatori, pregiudizialmente giudicata di qualità inferiore, e le poesie di Sulpicia si sono salvate e giunte fino a noi grazie a una circostanza quasi fortuita, perché ritenute appartenenti a Tibullo, nella cui raccolta confluirono. Ma Sulpicia, pur conosciuta nell’antichità e sebbene appartenesse a un circolo culturale molto importante, sarà purtroppo dimenticata per lungo tempo. L’idea che la letteratura, così come l’arte, fosse prerogativa esclusivamente maschile, era un pregiudizio rafforzato all’interno della società, che rimase immutato praticamente fino all’età contemporanea. Caduto, quindi, l’Impero romano, Sulpicia fu dimenticata e le prime notizie sulla sua esistenza e sulla sua riscoperta, si devono all’americana Carol Merriam, studiosa dell’elegia del tempo di Augusto, che nel 1991 pubblicò un articolo sulla poetessa, di cui possiamo ancora oggi assaporare i meravigliosi versi.


Alessandro Cavaletti, 4A

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