“Desine de quoquam quicquam bene velle mereri aut aliquem fieri posse putare pium. omnia sunt ingrata, nihil fecisse benigne prodest, immo etiam taedet obestque magis; ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius urget, quam modo, qui me unum atque unicum amicum habuit.”
Smetti di voler ben meritare qualcosa da qualcuno o di credere che qualcuno possa diventare grato. Tutto è ingratitudine, non giova a nulla aver agito bene, anzi addirittura reca noia e piuttosto danneggia; come me, che nessuno offende più gravemente né più aspramente di colui che fino a poco fa mi ebbe come solo e unico amico.
Catullo, carme LXXIII
“Caro lettore di più di due millenni a venire, sappi che potrai fare persino tutto il bene di questo mondo, ma stai pur certo che nessuno mai te lo riconoscerà e anzi, molto probabilmente subirai torti proprio da coloro che reputi tuoi più stretti amici: è quindi completamente inutile scomodarsi.” È con questo crudo realismo che il poeta latino più amato dagli studenti di oggi (o forse il meno odiato) mette in luce il proprio pensiero riguardo il concetto di gratitudine. Sicuramente Catullo non è famoso per aver avuto una visione poi così ottimista della vita o degli aspetti in generale che la riguardano: basti leggere infatti i suoi carmina d’amore per Lesbia, donna vivace e dai costumi molto emancipati, che spesso fa soffrire il cuore del povero poeta a causa delle sue continue scappatelle. Tuttavia dobbiamo ammettere che le parole di Catullo portano al loro interno una riflessione molto sincera e veritiera riguardo un tema morale e, oserei dire, tangente all’animo di qualsiasi essere umano. Quante volte, difatti, ci è capitato di fare un favore a qualcuno e di sentire, poi, come un vuoto amaro al nostro interno perché questi non ha mostrato la benché minima riconoscenza nei nostri confronti? O, viceversa, riflettendoci un po’ più sopra, quante volte noi stessi non abbiamo riconosciuto la giusta gratitudine ad una persona, che magari tiene davvero molto a noi? Certamente esiste un’ingratitudine più fievole, dovuta al fatto che spesso diamo per scontato determinate realtà quotidiane, anche se invece non lo sono affatto per tutti, come l’acqua, il cibo, i vestiti, la casa o molte altre. Credo proprio che questo sia uno di quegli aspetti che costituiscono l’essenza dell’universale umanità: seppur errato come atteggiamento, inutile biasimarsi più di tanto per ciò. Ma, cercando di andare un po’ più in profondità, perché l’ingratitudine si manifesta in modo così assiduo tra di noi? Lo storiografo latino Publio Cornelio Tacito (anche lui non così amato dai nostri Virgiliani), nelle sue Historiae (IV, 3) afferma: “Tanto proclivius est iniuriae quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in quaestu habetur”, ovvero: “Tanto è più facile ripagare un’offesa che un beneficio, poiché la riconoscenza è un peso costoso, la vendetta un profitto.” Egli, accostando alla parola beneficium il suo esatto contrario, cioè iniuria, illustra come da queste nascano di conseguenza, dalla prima, la gratia e, dalla seconda, l’ultio. E dichiara che per l’uomo è spesso più agevole e apprezzabile la seconda, sebbene assai discutibile sul piano morale. Ma, d’altronde, quando mai la virtù si è presentata agli uomini come la via più breve e più semplice da percorrere? Senza dubbio, mai. E pensare che Cicerone, nella Pro Cn. Plancio (80), una delle sue tante orazioni, afferma persino: “la gratitudine è infatti non solo la più grande, ma anche la madre di tutte le altre virtù. Che cos’è l’amore filiale, se non un atteggiamento di riconoscenza verso i genitori? Quali sono gli onesti cittadini, quali i benefattori della patria sia in guerra che in pace, se non coloro che sono memori dei servigi della patria? Quali sono i puri, quali i devoti, se non coloro che rendono agli dei immortali il dovuto ringraziamento con i riti prescritti e l’animo grato? Quale può essere il piacere della vita, senza l’amicizia? D’altra parte potrebbe esistere l’amicizia dove regna l’ingratitudine?”. Come dargli torto? Il sentimento di gratitudine, infatti, non è solamente un atteggiamento di cortesia nei confronti degli altri, bensì la base di qualsiasi rapporto interpersonale o, se si ha fede, divino e spirituale. Senza di esso i più, ma anche i meno, stretti legami emotivi e affettivi non si reggerebbero in piedi e finirebbero quasi subito per dissolversi. La tesi stoica di Cicerone si concilia poi perfettamente con il pensiero cristiano, sebbene, secondo esso, non si debba pretendere per forza un contraccambio del bene compiuto, ma costituisce comunque un dovere morale e spirituale per chi lo ha ricevuto. Essa è, infine, anche un atto di grande umiltà: esprime infatti il bisogno che ognuno ha del prossimo, contro la superbia e l’egoismo umano. La società sempre più individualistica nella quale viviamo, infatti, rende sempre più occasionale sentire qualcuno esprimere gratitudine. Forse lo è di meno tra i bambini, mentre tra gli adulti è più difficile trovare quel sentimento di profonda riconoscenza che scaturisce di solito dalla memoria di un animo toccato da un grande stupore per un bene ricevuto, e si accompagna sempre a una profonda felicità. Non esitiamo mai, cari Virgiliane e Virgiliani, a mostrarci riconoscenti verso gli altri, in particolare verso le persone che amiamo, non solo a parole, ma anche con piccoli e semplici gesti.
Alessandro Cavaletti, 4A
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